lunedì 14 settembre 2009

Cinque minuti con John Lasseter


Nel gergo del giornalismo cinematografico, per "junket" si intendono maratone di interviste organizzate con precisione paramilitare, durante le quali il personaggio di turno viene praticamente inchiodato su una poltrona, con una telecamera e un microfono puntati addosso, e incontrano una batteria di intervistatori che si succedono sulla poltrona di rimpetto. Telecamera e operatori sono gli stessi, così si risparmia sul tempo di illuminazione e di preparazione dell'inquadratura. E i minuti per l'incontro sono contati: in genere cinque o sei, anche se in rari casi si riesce a rubacchiare un minuto in più o in meno. È lo speed dating dell'intervista, c'è appena il tempo di farsi dire due parole standard sul film per un servizio TV di un paio di minuti. Come diceva un ufficio stampa con cui ho parlato nei giorni di Venezia, non è nemmeno una vera intervista, è pura promozione.

C'è chi si sottopone ai junket di malavoglia, e sfrutta sempre le stesse cinque/dieci risposte prefabbricate per disimpegnarsi (tanto, si sa, gli intervistatori cinematografici sono per il 98% degli incompetenti che non sanno inventarsi una domanda decente nemmeno per salvarsi la vita) e chi è diventato bravissimo a sfruttarne al meglio i tempi per riuscire a comunicare qualcosa che dona, almeno, a chi lo intervista, l'illusione di avergli dato qualcosa di personale.

John Lasseter lo avevo incontrato parecchi anni fa a un altro junket, quello per "Toy Story 2", e già allora, nei sette minuti che avevamo avuto a disposizione, mi aveva dato risposte articolate, interessanti e appassionate. E anche qui a Venezia, nonostante l'argomento non fosse strettamente un fim bensì il Leone d'oro alla carriera (sua e della sua Pixar) e un nuovo titolo di cui tuttavia non sapevo praticamente nulla, l'incontro è stato prezioso. Anche perché si è parlato di un argomento avviato qualche mese fa con Katzenberg, ossia il passaggio a 3D di film d'animazione concepiti, originariamente, per essere fruiti sul tradizionale schermo piatto. Le righe che seguono sono un junket, più che un'intervista, ma trattandosi di Lasseter mi sembra che valga comunque la pena di trascriverle.

In genere ci vuole una vita a ottenere un Leone d'oro. Tu lo hai avuto dopo quindici anni... anche se è vero che, nell'animazione, quindici anni sono un sacco di tempo. Che effetto ti fa?


Ricevere il Leone d'oro alla Mostra di Venezia è stato molto emozionante. Ne sono particolarmente orgoglioso perché non l'hanno dato solo a me, ma a me è alla Pixar. È la prima volta nella storia che viene dato il premio a uno studio. Perché noi siamo quello. Non siamo solo un gruppo di individui, siamo uno studio. Lavoriamo a strettissimo contatto e siamo estremamente concentrati nello sforzo di fare ottimi film.



Mi incuriosisce la vostra iniziativa di rendere tridimensionale alcuni vostri film che non sono inizialmente stati realizzati a tre dimensioni. Il fatto che siano generati al computer vi permette di avere tutta l'informazione necessaria per realizzare una versione 3D?

Beh, per come la vediamo noi, facciamo da sempre film in tre dimensioni, solo che fino ad oggi li guardavamo con un occhio chiuso. Questo perché all'interno del computer c'è un ambiente davvero tridimensionale all'interno del quale facciamo tutti i nostri film. La cosa eccitante è che, siccome si tratta di dati, di dati informatici, possiamo tornarci dentro, aggiornare i dati al nostro attuale sistema operativo. A quel punto siamo in grado di produrre un altro punto di vista al'interno della stessa esatta scena. Non abbiamo cambiato una sola cosa in "Toy Story" o "Toy Story 2". È esattamente lo stesso film, solo che lo puoi vedere in 3D. Ed è un vero divertimento, è emozionante, piace molto anche a me perché la gente può di nuovo vedere "Toy Story" e "Toy Story 2" sul grande schermo, ossia nella modalità per cui erano stati pensati.

Mi intriga molto l'idea che la prima mossa di John Lasseter, il fondatore della Pixar, una volta entrato in Disney, sia stata produrre un film di animazione tradizionale dopo che la Disney stessa, sulla scia del successo travolgente della Pixar, aveva abbandonato questo sistema.


Beh, tutta la mia carriera si deve ai film di Walt Disney. Sono stato tirato su da artisti Disney, ho lavorato come giovane animatore agli studi Disney, poi ho cominciato a interessarmi di animazione al computer, cosa che mi ha portato nel nord della California. Ora, quattro anni dopo che la Disney ha acquistato la Pixar... non appena sono rientrato ho detto: "Faremo di nuovo un fim di animazione disegnato a mano", perché amo quella forma d'arte. L'obiettivo è fare un grande film, non importa quale mezzo si usi. La questione è intrattenere il pubblico. Ho chiesto a John Musker e Ron Clemens, due cari amici (e i registi di "La sirenetta" e "Aladdin") di tirar fuori un'idea: loro sono venuti fuori con questa fantastica nuova rilettura del principe ranocchio e l'hanno chiamata "La principessa e il ranocchio". C'è un personaggio femminile molto forte ed è un ritorno alla fiaba, un ritorno al musical, è bellissimo... ci sono personaggi splendidi - sia umani che animali parlanti... è così... ha tutti gli elementi di un classico film della Disney. Ma è nuovo di zecca.

Visto che hai citato l'acquisto della Pixar da parte della Disney e allora: che cosa è, oggi, la Disney e che cosa è, oggi, la Pixar?


Uno studio non è un edificio... uno studio è fatto di persone. La Pixar Animation Studios ha un gruppo di cineasti e animatori che ci lavorano, così come i Disney Animation Studios. Davvero, sono gruppi diversi di artisti, ma entrambi sono studi diretti da cineasti - è quello che facciamo. Siamo i cineasti ma anche i responsabili degli studi e le idee vengono da questi artisti all'interno dello studio. C'è una differenza, ed è nella tradizione. Entrambi gli studi sono molto orgogliosi della propria tradizione. La Pixar è uno studio che abbiamo avviato dal nulla, fondato per sviluppare nuove tecnologie e che ha sempre realizzato grandi film in computer animation... la Disney è lo studio costruito da Walt Disney... non ha mai chiuso, ha sempre fatto film di animazione. È una tradizione fantastica e gli artisti che ne sono parte ne sono enormemente orgogliosi. E per giunta questa convivenza sposta in alto la barra: noi dobbiamo fare film all'altezza di quelli fatti da Walt Disney, altrimenti non ha senso che portino il nome Disney. Io la vedo così. E la "Principessa e il ranocchio" è a quel livello. È un ottimo film.

giovedì 10 settembre 2009

Dieci minuti con George A. Romero


Fra le interviste che ho potuto registrare durante la 66a Mostra del Cinema di Venezia, quella a George A. Romero era una di quelle che aspettavo con più impazienza. Avevo avuto modo di incontrarlo già una volta, svariati anni fa, ma il film di cui avevamo parlato, "La metà oscura", per quanto non spregevole era ben lungi dall'avere la ricchezza tematica di qualsiasi capitolo della sua ormai quarantennale saga dei morti viventi.

Nonostante il suo tardivo ritorno al tema, con "La terra dei morti viventi", si fosse dimostrato non proprio all'altezza delle aspettative prodotte dalla straordinaria trilogia iniziale ("La notte dei morti viventi", "Zombi" e "Il giorno degli zombi"), il successivo "Diary of the Dead" aveva di nuovo raccolto reazioni fra l'interessato e l'entusiastico. E questo "Survival of the Dead" - più un sequel di "Diary" che un sesto capitolo della serie - suonava particolarmente intrigante anche per il fatto di essere il primo film di zombi ad essere accolto nella selezione ufficiale di Venezia.


Accolto dal pubblico festivaliero con gradimento anche se forse senza eccessivi entusiasmi, "Survival" è lungi dall'essere un film perfetto, e non si candida certo a insidiare le prime posizioni di una ideale classifica della serie... ma pullula di idee intriganti e di variazioni sul tema che promettono per i prossimi film sviluppi particolarmente suggestivi. Di alcuni dei quali Romero è riuscito a parlarmi nei pochi minuti di conversazione che i tempi scannati della Mostra ci hanno consentito, a cominciare da un taglio western addirittura sorprendente.


I generi cinematografici hanno quasi sempre notevoli potenzialità metaforiche, soprattutto quando sono codificati come il western e l'orrore. Come ti è venuta l'idea di farli scontrare e ricombinarli in "Survival of the Dead"?


Non saprei, a volte cogli le idee al volo. Facendo questo film abbiamo avuto molta libertà - ho avuto la possibilità di dire "ehi, diamogli un po' di sapore western" e non è arrivato nessuno a dire "no!". Sono sempre alla ricerca di qualcosa che possa dare ai miei film un taglio leggermente diverso. È vero che i generi dovrebbero essere usati come metafore ma, sfortunatamente, molto spesso non lo sono... Io cerco sempre di farlo, di trovare qualche elemento sottotraccia che mi aiuti a mettere a fuoco il tema del film. Molto frequentemente vedo che gli altri registi non lo fanno. Per quanto riguarda le possibilità metaforiche degli zombi e del western, immagino che qualche connessione ci sia, lì... e ne ho parlato con lo scenografo e il montatore... ma non è che abbiamo lavorato consapevolmente puntando a quello. Avevamo location eccezionali e, parlando con la costumista, le ho detto: "Andiamo sul western, facciamo di questi tipi dei cowboy". Alla fine questo lavoro è anche divertirsi... e avere la possibilità di dire "facciamolo così o facciamolo cosà". Perché questi sono film indipendenti e posso farli mantenendo il controllo. Nel bene e, a volte, nel male! (ride)


Pur con molte eccezioni, il western tende generalmente verso l'individualismo, mentre i suoi zombi hanno sempre avuto una valenza rivoluzionaria, esprimendo il cambiamento e la trasformazione. In questo film, i personaggi più legati al western si sforzano di conservare lo status quo a qualsiasi costo, nonostante uno scenario di portata apocalittica.

È un cambiamento epocale ma questi vecchi nemici non riescono a dimenticare la loro inimicizia e continuano a spararsi uno con l'altro invece che sparare a loro. Il tema di base del film è questo. Ma il collegamento che hai fatto è molto interessante. In realtà ho perso un po' per strada l'elemento rivoluzionario degli zombi dopo i primi quattro film... in qualche modo sento di aver chiuso quel capitolo, essere tornato alla prima Notte dei morti viventi e ricominciato da capo. Questa volta mi interessa molto di più creare un insieme di regole e... spiegare il mio tipo di zombi... e anche tenere in evidenza un tema umano, allo stesso tempo. Questo per me è un film sulla guerra, su persone che nemmeno si ricordano cosa abbia iniziato la guerra ma continuano a spararsi addosso.


Proprio questa mi è parsa la metafora più interessante del film. Fin dai tempi di "Zombi", ci viene mostrato come, al di là della ricerca del cibo, i morti viventi cerchino di continuare a fare da morti quello che erano abituati a fare da vivi. In questo film, quello che continuano a fare è spararsi addosso - lo si vede nell'ultimissima inquadratura del film. Mi è parso interessante che l'espressione della vacuità di gran parte delle attività umane, qui, si concentri soprattutto sull'inutilità del combattersi a vicenda.


È proprio il tema del film: persone che combattono fra loro fino alla morte e anche dopo. (ride) Il tema è questo. I protagonisti si recano su un'isoletta pensando che lì saranno più al sicuro, e invece sull'isola trovano questi due clan che sono costantemente... che si fanno la guerra da sempre. E non si fermano.


Poco fa hai accennato all'importanza di aver realizzato questo film in modo indipendente, un po' come era accaduto per il primo titolo della serie. Cosa è cambiato, in quarant'anni, nel girare un film lontano dal controllo delle grandi major?


Quando negli anni Sessanta ho fatto "La notte dei morti viventi", lavoravamo in completa indipendenza: eravamo un gruppo di giovani che volevano fare un film, che sono riusciti a tirar su qualche soldo e l'hanno fatto. Non avevamo attorno gente in cravatta, nessuna forma di responsabilità... avevamo promesso di fare un film e qualcuno ci ha dato i soldi. Adesso ovviamente è diverso, tutto è più formale... ma negli ultimi due film, "Diary of the Dead" e questo "Survival", abbiamo avuto controllo creativo su tutto. Per cui, in quel senso l'esperienza è molto simile. È stato bellissimo poter prendere una boccata d'ossigeno... quando abbiamo fatto "La terra dei morti viventi", dietro di noi avevamo la Universal e tutto era... grosso! E naturalmente alla fine ha incassato una cifra considerevole, ma ho sempre avuto la sensazione che i miei fan - voglio dire, i miei appassionati irriducibili - beh, dicessero: "Ah, Romero si è venduto a Hollywood... guarda, nel cast ha Dennis Hopper..." Mi trovavo ad essere criticato per qualcosa che dal mio punto di vista era ottima e anche divertente... E poi, il modo in cui hanno distribuito il film... mi è parso che avrebbero dovuto dargli una distribuzione migliore. Questi sono alcuni dei fattori che hanno avuto un peso nel farci tornare la voglia di tornare a fare i film in modo indipendente. La sceneggiatura di "Diary" ce l'avevamo fin da prima di fare "La terra"... e quando abbiamo finito "La terra" abbiamo trovato alcuni finanziatori pronti ad andare avanti e a farlo per cui siamo partiti. Quanto al procedimento... all'epoca avevamo un approccio diverso, ci limitavamo ad andare in giro a chiedere soldi. Oggi, naturalmente, tutto è più formale ma per quel che riguarda l'atto del girare un film - a parte il fatto che oggi ne so di più su come si muove l'obiettivo - tutto è abbastanza lo stesso di sempre. Certo, è molto liberatorio... è bellissimo non essere costretto a scrivere un memo ogni volta che vuoi cambiare qualcosa. (ride)

Verso la fine del film, dopo che alcuni protagonisti si sono sforzati di insegnare ai morti viventi a nutrirsi di carne non umana, gli zombi sbranano un cavallo. A parte il fatto che lo sviluppo sembra aprire la porta a un ulteriore capitolo, la novità abbatte un ulteriore muro di divisione fra morti viventi ed esseri umani normali. Nel momento in cui gli zombi, oltre a proseguire da morti le loro attività originali, mangiano carne non umana... quale è ormai la differenza?

Beh, questo è un tema su cui sto lavorando fin dai tempi di "Il giorno degli zombi" ho cominciato a lavorarci... in sostanza, ci sono più punti di contatto che differenze. Per cui quello che vorrei fare - quello che cerco di fare con questo film e nel prossimo, se un prossimo ci sarà, è di impostare un po' di regole, alcune differenze, e rendere gli zombi più umani. L'obiettivo è di portare il pubblico a un punto in cui simpatizzano per i morti viventi - allo stesso modo in cui lo faccio io.